Gatti sciolti

A cura di Renata Mallia

di Don Backy

Proseguono le riflessioni sugli abbandoni degli animali sulle strade

Ho iniziato la settimana scorsa a trattare il tema – a me congeniale, pur se non nello specifico – dell’abbandono degli animali in generale e dei cani in particolare, specie nella stagione estiva. Mi accingevo a raccontare un episodio accaduto proprio nell’ambito della mia famiglia, riguardante un pronto intervento richiesto a uno di questi tanto strombazzati numeri verdi o gialli o blu, che si pongono – salvando ognuno – a paladini dei ‘diritti’ degli animali. Prima di cominciare, devo rivelarvi che gli animali, noi li abbiamo sempre amati fin da ragazzi. Personalmente – nella mia casa in Toscana – ho sempre avuto cani di taglia grande: pastori tedeschi e maremmani, che – pur vedendomi poche volte – mi amavano in maniera quasi morbosa, dimostrandomelo – abbondantemente ricambiati – quando ritornavo a casa dai miei viaggi. Ma fu nel 1973 che giunse la folgorazione per un’altra specie. I gatti. Mi trovavo a Istanbul per girare un film e una mattina all’alba, eravamo al porto per alcune scene. Improvvisamente dall’altro lato di una stradina dal punto in cui ero situato io, un gatto randagio sbucò trotterellando. Fino a quel momento, i gatti non mi avevano granché interessato. Credevo ai luoghi comuni, che li vedono un po’ ‘snob’ per via della loro grande indipendenza e personalità – scambiata per scarsità d’affetto verso i padroni – o altre dicerie seminate da banali ‘untori’. Fatto sta, che l’occhio mi cadde su quella specie di tigre in miniatura e rimasi colpito specialmente dal suo manto. Avrà avuto due o tremila colori mescolati insieme e tutte le tonalità degli stessi, a sfumare. Fu un istinto irrefrenabile e – prima che sparisse in qualche anfratto – lanciai a quel micio il classico richiamo, verso il quale non resistono di porre la propria attenzione, risucchiando un po’ d’aria tra le labbra. La gattina (lo scoprii dopo), voltò leggermente la testa, mi guardò un istante, e – attraversata velocemente la strada con un balzo mi saltò in braccio prendendo a fare le fusa come se fossi stato il suo papà ritenuto disperso e ritrovato (e forse era proprio così). Non fui più capace di distaccarmene. Dovendo girare le scene per cui mi trovavo in quel luogo, pregai un ragazzo della troupe – uno di Istanbul, che si chiamava Ekrem – di tenermi quel micio fino a quando avessimo finito e tornati in albergo. Credo che lo facesse mettendo la gattina in un sacco e tenendocela fino al momento in cui non venne a consegnarla a mia moglie, la quale – sentendosi dire: suo marito le ha fatto un bellissimo ‘regalo’ – aveva pensato – come minimo – che le avessi comprato il Topkapi. Tenemmo la gattina nella nostra stanza per una quindicina di giorni, accudendola nelle sue necessità e – non potendone più fare a meno per l’affetto che era subentrato – mia moglie si adoperò per farle ottenere i permessi di espatrio. Una volta ottenuti questi, la portò con sé, il giorno in cui decise di tornarsene in Italia. Da quel momento, Mackha diede inizio a una discendenza, che – pur avendo visto la fine come consanguineità diretta – è continuata con altri trovatelli raccolti e adottati. E andiamo avanti… 

RadiocorriereTV n° 4 27/01/04