di Don Backy
Ancora sui parolieri e l’arte del verso. L’esempio di Luciano Beretta
Da qualche settimana sto parlando della figura – veramente poco esaltata – del paroliere (cosiddetto solo per una questione di praticità, ma sarebbe meglio chiamarlo con la sua qualifica riconosciuta di ‘autore’). Ho cominciato a dare i giusti meriti a un grandissimo, che si chiama Léo Chiosso. È stato il paroliere delle canzoni di Buscaglione, quelle che hanno fatto sognare tanti ragazzi della mia generazione (Love in Portofino, Mi sei rimasta negli occhi, Nel cielo dei bar) e divertire (Teresa non sparare, Eri piccola così).Adesso voglio farvi porre l’attenzione su un altro grande professionista, a mio parere veramente poco ricordato. Per non dire di più. Avrete già intuito di chi si tratta, perché ho chiuso la scorsa puntata, introducendo proprio l’intenzione di pubblicare una lettera a lui destinata e pubblicata in un libro di Elisabetta Tosi, intitolato: Piacere, Luciano Beretta, il paroliere di….. Ecco, il personaggio in questione è proprio Luciano Beretta. Il primo impatto con lui, lo ebbi nel ’62, appena arrivato al Clan. Adriano gli demandò il compito di sostituire il testo alla canzone che gli avevo mandato quale provino, e che divenne poi la prima canzone da me incisa per il Clan: Fuggiasco. Non so se questa fosse un capolavoro. Non credo. Comunque sia, da quel titolo, prese il nome il primo gruppo musicale che fu il mio gruppo dal 1963 al 1966: I Fuggiaschi. Appunto! A parte questa piccola digressione, Luciano ha meriti assolutamente più grandi. Ci sono canzoni, che – non avendo la fortuna di avere un testo all’altezza – sono destinate a un insuccesso oppure a una rapida eclisse. Non sarà certo il caso di Una carezza in un pugno – con l’ottima musica di Gino Santercole – a cui Luciano ha conferito quell’aura di poesia, che l’ha posta al livello di un piccolo capolavoro. E nemmeno lo sarà per Nessuno mi può giudicare, il brano che – forse più di tutti – ha caratterizzato gli anni ’60, finendo col diventare l’inno di quella casereccia gioventù hippy, che consigliava di mettere fiori nei propri cannoni, con quell’anelito di libertà che la pervadeva. Sì, forse Luciano era davvero in grado di percepire dei concetti, che avessero un’evidente lungimiranza, rispetto a ciò che si sentiva in quel periodo.Altrimenti come si spiega Il ragazzo della via Gluck? Quella qui di seguito, è la lettera che gli ho indirizzato: “Non starò a dire frasi fatte, di quanto fossi amico di Luciano Beretta e che qui e che là e che su e che giù. Non lo ero – infatti – nel senso canonico del termine, però non sono mai riuscito a darmi una risposta, del fatto che ogni volta che ci si incontrava – vuoi per lavoro, vuoi casualmente – bastava uno dei suoi graziosi ammiccamenti teneri e maliziosi, il suo gentile modo di porgersi, la sua malinconica allegria, la raffinata educazione, la cultura mai ostentata e fatta pesare, per far scaturire quella scintilla di simpatia – oserei dire di felicità – che lo rendeva immediatamente, incomparabilmente amico…”. Segue nella prossima puntata definitiva.
RadiocorriereTV n° 26 01/07/03