di Don Backy
Secondo capitolo dedicato alle probabilità di esistenza degli alieni
Da un paio di domande sulla nascita dell’uomo sulla Terra e sulla possibilità che altri pianeti dell’universo siano popolati, che mi sono state rivolte da una gentile lettrice, ho tratto lo spunto per darne – di fantasia – attraverso un mio racconto che ho intitolato I figli delle stelle. Al protagonista della storia (TherHa), viene svelato dal suo genitore – un ‘ominide’ vissuto più di trentamila anni fa – il segreto della sua diversità, rispetto agli altri elementi della stessa tribù. “…Quell’astronave, sbucò attraverso le nubi in continua dissolvenza, bianche a cirri e grigie e rosa e in tante altre tonalità, man mano che queste erano investite dal sole, che si affogava nel mare. Laggiù in fondo, squarci d’azzurro erano incendiati dal sole sull’orizzonte, i cui bagliori sfumavano dal rosso arancio – in tutte le gradazioni del colore – fino a un pallido rosa fuso in un tenue azzurro, che – fuggendo dalla parte opposta – andava con cromaticità sempre più intensa di blu oltremare, blu cobalto e infine blu di Prussia,a tuffarsi nella notte scura. L’acqua – evaporando dal vasto oceano – creava una cortina tremula, che s’innalzava verso l’alto. La nave mandò baleni accecanti, librandosi immobile nel cielo. Suoni ovattati – simili a sbuffi di vapore fuoriuscenti da soffioni sulfurei – sottolinearono il roteare rallentato della cupoletta che lo sovrastava. Iniziò quindi, una manovra d’atterraggio. D’un tratto, il raggio intermittente dal colore indefinito – che sembrava sostenerla – si spense di colpo. Il disco si piegò su se stesso. Uno schianto, un sollevar di polvere – con fuga starnazzante di uccelli senza piume e piccoli animali squamosi usciti dal luogo dell’impatto – poi il silenzio tornò assoluto. Tra le foglie, Horak – il capo branco – guardava con un po’ di apprensione ma senza paura, quello strano meccanismo. La sua tribù non mostrava interesse a quanto era avvenuto o stava per avvenire. Continuavano a dedicarsi allo spidocchiamento, a mangiare formiche – traendole con appositi bastoncini dai termitai – sgusciare bacche o a suggere radici succose. Ogni tanto lanciavano a lui qualche sguardo, aspettando che fossero i suoi occhi a raccontare l’evento. Le sue nari fiutarono l’aria intorno, poi fece un gesto eloquente con il braccio peloso, si alzò sulle possenti e tozze zampe e si avviò – incurvato sotto il peso delle sue spalle – verso quell’essere apparso nel vano di un portello, apertosi come d’incanto su un punto della navicella, dove nessuno avrebbe mai potuto intuire esserci un’apertura. La creatura – così sorprendentemente simile a loro nella struttura del corpo (anche se sentiva che non avrebbe cambiato, con quel curioso individuo, nemmeno uno dei suoi acuminati unghielli) – dopo aver aggeggiato con un marchingegno luminoso – che gli stava legato al braccio – si era staccato la testa, sollevandosela, per mostrarne un’altra più piccola, quindi – dalle narici di quello strano naso sporgente – aveva tratto ampi e goduti respiri. Solo allora – Horak – pensò che gli sarebbe piaciuto avere la possibilità di cambiare la sua testa (…)”.
RadiocorriereTV n° 50 16/12/03