di Don Backy
Emozione paralizzante, Dorelli scaramantico, un sorriso da lontano e iniziai a cantare…
Ricordo quando nel 1967 ero a Sanremo per partecipare al Festival. Una sera, salendo le scale del Casinò Municipale – bersagliato dai flash dei fotografi – mi sembrò di vivere un momento non mio. A metà della gradinata che mi immetteva nell’empireo ebbi la stessa impressione provata molti anni prima quando – per la prima volta – avevo cantato il rock con i Golden Boys. Fu come se il mio corpo viaggiasse da solo, e il mio essere spirituale – appoggiato a una delle arcate all’ingresso , nella tranquilla sicurezza di non esser visto – mi osservasse con un pò di compassione. All’interno la tensione si tagliava a fette. I baffi di Domenico Modugno parvero tremare, Claudio Villa mi sembrò più basso di quanto fosse in realtà, Little Tony si acconciava il ciuffo con gesti maniacali, Ricky Majocchi pareva trovarsi in una dimensione psichedelica… e anch’io mi comportavo allo stesso modo, anche senza l’aiuto di anfetamine. Il mio stomaco era ridotto alle dimensioni di una nocciola. Johnny Dorelli – che avrebbe doppiato l’immensità – cercò di tranquillizzarmi, mostrandosi calmo, mentre passeggiava nel retropalco: “Hai scritto la canzone più bella…vai fuori e uccidili” mi disse Invece- quando sentii annunciare il mio nome – l’emozione mi aggredì ancora più violenta. Salii le scalette che conducevano al centro del palco con in testa tanta di quella nebbia che, se fossi stato all’aeroporto di Linate , mi avrebbero chiuso al traffico. Ecco, adesso ero a Sanremo e – come avevo immaginato – proprio nell’ora della verità, avrei volentieri raccontato bugie: che mi sentivo male, che mi ero sbagliato, che mi scusassero ma avevo un appuntamento. Quei pochi metri diventarono improvvisamente molto più lunghi di quanto non fossero quelli che impedirono a Dorando Petri di vincere la maratona alle Olimpiadi londinesi nel 1908, e i miei passi pesanti quasi fossi attratto dalla gravità di Giove. Con la coda dell’occhio vidi Johnny farsi per tre volte il segno della croce. Detto Mariano (il mio arrangiatore) – immobile – attese che gli facessi capire di esser pronto, per dare il via all’orchestra. Poi attaccò comunque. Se fosse stato per me, il segnale gli sarebbe arrivato nel duemilatredici. Dalla prima fila Maria Liliana – la mia ragazza – cercò di farmi arrivare un sorriso. Finalmente cantai, o mi parve di farlo. Riuscii a domare la tensione per tutta la prima parte, ma, alla ripresa – dopo l’assolo dell’orchestra – dovetti chiudere gli occhi e combattere ferocemente contro l’enfasi incontrollabile che mi assaliva sempre quando sentivo dentro di me il segnale positivo, conducendomi a rompere qualsiasi freno inibitorio del controllo delle emozioni, per dilagare
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