di Don Backy
L’industria discografica dovrebbe capire meglio certe aspettative
Ed è in quel momento (avvento delle radio private e conseguenti dj) che, l’industria italiana della canzone, non è stata capace di ‘gestire’ il passaggio generazionale, di trasformare cioè, con gradazione – e soprattutto con rigore e oculatezza (anche perché fagocitata dalle multinazionali) – continuando a investire sapientemente anche sui ‘vecchi autori’ della seconda area, per conservare un mercato a 360°, in modo da soddisfare tutte le esigenze del pubblico, invece di scaricarli e farli affondare dalle chiacchiere – spesse volte anche sgrammaticate – dei precedentemente detti profeti del trendy radioprivatisti, che hanno incoraggiato mode, costumi, ritmi, lontani anni luce dalla nostra radice latina. E’ pur vero che alcune di queste radio, cercano oggi di salvare il salvabile, proponendo esclusivamente “musica italiana” o “anni ’60”. Ma – nella maggior parte dei casi – si tratta di un’operazione nostalgica del tutto sterile (riguardo alle vendite), che – se non appoggiata da iniziative forti e tendenti a recuperare terreno – non darà che infecondi frutti. E i recensori della stampa? Mi domando: hanno mai provato questi ortodossi dell’eskimo, a mettere il sedere fuori dalle redazioni e ad andare in giro per l’Italia (quella vera) a constatare che essa non è solo Milano , o Roma, o Napoli, che non esiste solo nei loro salotti e che non è popolata esclusivamente da sessantottini fuori corso o universitari acculturati? Ma , dico io, si può dare diritto di cittadinanza solo a canzoni alla De Gregori, alla Finardi o alla Guccini, relegando nel reparto idioti tutta quella parte di pubblico (ed è la maggioranza), che ama sentire e godere anche di canzoni più accessibili a intelletti, che non abbiano voglia di macerarsi dietro pensatorie declamazioni le quali, non mi risulta abbiano mai ottenuto un sia pur minimo miglioramento nella società), e alle quali – in maniera impropria – si dà il titolo di canzone? Negli anni ’60, le canzoni erano semplicemente canzoni. Nessuno chiedeva a una canzone niente altro che una piccola emozione, che facesse da colonna sonora in quell’istante in cui un battito di cuore improvviso, ci faceva sentire di esserci innamorati. Un immedesimarsi col racconto di una storia vissuta – anche se di sola fantasia – che ci facesse spaziare in voli fantastici, oltre il quotidiano: tu sei l’orizzonte senza nuvole..” oppure “Ovunque sei, se ascolterai…”. Ma chi avrà mai ballato in una sera d’estate – sotto un cielo stellato – con una canzone ‘intelligente’ di Branduardi? e alzi invece la mano, chi – anche tra i critici – non abbia mai stretto al cuore una fanciulla, dondolandoci insieme al ritmo di un brano di Buongusto. I recensori – allora – si occupavano di valutare il modo corretto di esprimere i concetti, che le rime e le metriche fossero ben poste, che la voce fosse intonata e avesse personalità e non vagliare l’aspetto politico o sociologico delle stesse, usando panegirici concettuosi che avrebbero fatto arrossire anche il Petrarca o l’Alighieri – se per questi fossero stati spesi – ma del tutto fuori luogo se riferiti al più istintivo e antico modo conosciuto dall’uomo, per divertirsi o farsi compagnia. Cantare.
RadiocorriereTV n°21 28/05/02