di Don Backy
Come gli Stati Uniti ci hanno “colonizzato” ed ecco come resistere
Riprendo il mio concetto, tendente a dimostrare come ci potrebbe essere un disegno ben preciso da parte degli Usa, nel voler egemonizzare – assoggettandole alla propria – le culture del mondo (e quindi renderle mercato globale, nel quale avere la parte del leone), attraverso tutto ciò che può condizionare le menti, in specie dei ragazzi, ma non solo. E badate bene, lo dice uno che ha fatto il tifo per tutto ciò che di innovativo arrivava dagli States – dal Rock and roll, ai blue jeans. Ai juke box – non ultimo anche scimmiottarne la lingua con suoni onomatopeici, con i quali si mimava quell’americanese usato da noi cantanti del genere di allora, per cantare le canzoni di Presley o di Little Richard, quando era difficile (almeno in provincia) riuscire a procurarsi i testi originali. Forse siamo davvero stati noi le teste di ponte che hanno iniziato a introdurre quel tipo di cultura così diverso dai nostri canoni. Quanto meno però, abbiamo abbiamo avuto il buon gusto di saper scegliere. I nostri riferimenti in musica erano maestri come Ray Charles, Bacharach, Fitzgerald, Sinatra. Oggi, ritengo che siamo all’asagerazione. Ho già parlato di quanta negativa influenza abbia portato nella musica leggera nostrana, questa sistematica invasione, specialmente quella di sottocultura musicale, rappresentata dalla cosiddetta disco dance. Sono convinto che – per quel che riguarda la messa in onda di quei brani da parte di Rai e private, essa risponda unicamente a una esigenza di riempire più spazio/tempo possibile. E’ dura – infatti – fare trasmissioni giornaliere con canzoni e argomenti sempre interessanti e ben scelti. Allora? Vai col tango (si fa per dire). Si butta in onda di tutto e di più. Ora mi domando: pensate se questo andazzo lo avessero capito gli editori stranieri di stanza in Italia. Chi avrebbe potuto impedire loro di iniziare una vera e propria catena di montaggio musicale? Creare certi gruppi – in realtà virtuali – usando turnisti stakanovisti concreti e far realizzare una produzione seriale, che – inviata nel mondo – servisse solo a far rientrare in patria (loro), valuta pregiata sotto forma di diritti e noi lì a sorbirci la ‘cassa in quattro e via andare’ su rif ripetitivi fino al rimbecillimento (che è comunque un obbiettivo) e senza capire un’acca di quel che ci viene propinato attraverso le parole (parole?). E’ fantascienza? Mah, non lo so! Senza contare che – ormai – alcuni dei nostri artisti cantanti insertano brandelli d’inglese – oppure sgangherano l’italiano, cercando di americanizzarlo, adattando la glottide a una vocalizzazione tipica anglosassone, per somigliare il più possibile a Stevie Wonder, a Mariah Carey o a Whitney Huston.
RadiocorriereTV n° 5 30/1/200