Care note

A cura di Renata Mallia

di Don Backy

Secondo capitolo di riflessioni sulla “non arte” di riarrangiare un motivo

Dalla precedente puntata, ho iniziato un ragionamento – assolutamente personale – attraverso il quale espongo il mio punto di vista, riguardo al ‘rifacimento’ di arrangiamenti che hanno vestito grandi successi del passato. Sono in disaccordo con questa pratica e ne spiego i motivi, ricordando la delusione provata, dopo un esperimento da me fatto circa venti anni fa, quando mi ero lasciato trascinare da un tentativo di vedere ‘in chiave diversa’ otto mie ‘vecchie’ canzoni. La stessa delusione provata durante la visione di un concerto di Little Richard, al quale ero accorso pensando di riprovare emozioni del passato attraverso le sue canzoni, riproposte – credevo – tal quali a come le avevo vissute da ragazzo. Già mi pareva di vedere – andando verso il luogo del concerto – la vecchia banda di Richard soffiare nei sax alla maniera di di allegri mantici e scatenarsi in quei ‘soli’, da non modificare mai. La delusione cocente con il rifiuto di volerci crederci, è arrivata quando – dopo una serie di noiose quanto interminabili pantomime, recitate in giro per il palcoscenico, roteando le proprie scarpe e blaterando in slang qualcosa che sicuramente solo lui capiva – il piccolo ‘colored’ ha cominciato a cantare. Da principio non mi sono reso conto. Avvertivo soltanto che qualcosa non andava per il verso giusto. La canzone magari era proprio The girl cant help it, ma ciò che mi arrivava non riusciva ad allargarmi il cuore come avevo immaginato dovesse succedere. Quella mia ‘stampella’ (sotto questa forma mi piace immaginare le canzoni) carica di ricordi, improvvisamente si rivelava vuota delle emozioni che ci avevo attaccato. Non riuscivo più a rivedere la biondissima Jayne Mansfield – fasciata in abiti colorati che sembravano esserle stati dipinto addosso – andarsene per i locali, accompagnata da Tom Ewell – nelle vesti di impresario – per cercare di imparare l’arte di essere artisti, proprio da gente che si esibiva in quegli stessi locali, come Eddie Cochrane e – appunto – Little Richard, il quale cantava (non ancora inquinato), proprio quel brano che dava anche il titolo al film. Di colpo ho afferrato a cosa era dovuta la mia insoddisfazione. Tutto era cambiato, i ‘riff’, (assoli), diversi dagli originali, la ritmica rock, trasformata in qualcosa che stava tra il rythm and blues e il ‘funky’. Anche la sezione fiati – che adesso conteneva anche un trombone e una tromba – non aveva più nulla da spartire con la vecchia, formata solo dai sax e – addirittura – il riff, ora veniva eseguito dalla tromba (orrore). Non erano presenti – a quel concerto – le nuove generazioni, in grado di apprezzare comunque quelle canzoni. Pertanto, l’unico risultato è stato quello che nessuno degli astanti – gente della mia classe d’età – ha apprezzato. Ci guardavamo un pò increduli e delusi da quel ‘tradimento’ e forse abbiamo provato l’effeto contrario a quello che avevamo immaginato. Cioè, di sentirsi – almeno spiritualmente – proiettati nella dimensione dei vent’anni sulle ali dei ricordi legati. Sono stato ‘ingrugnito’ per giorni, maledicendo il cantante per il ‘dolore’ che mi aveva dato. E…di tutto il resto vi parlerò alla prossima. 

Radiocorriere TV n° 46 19/11/02